Autore: Romano Benini
Monografia
Editore: Eurilink University Press
Anno pubblicazione: 2019
ISBN: 978 88 85622 58 6
Prefazione:
Due grandi questioni nelle società dell’emisfero occidentale dominano oggi il conflitto sociale e politico. Da una parte, c’è la difficoltà delle istituzioni politiche statuali a stimolare e sostenere la crescita e ridurre le crescenti disuguaglianze generate da errate politiche economiche e sociali e da una globalizzazione senza regole. Dall’altra, c’è la difficoltà di assorbire la forza lavoro disponibile in presenza della radicale e rapida diffusione della tecnologia digitale e una altrettanto rapida obsolescenza delle competenze professionali della offerta, difficilmente ricollocabile senza efficienti ed efficaci servizi per l’impiego. La disoccupazione cresce e nuove disuguaglianze, causate dall’evolvere delle conoscenze, dividono orizzontalmente i ceti tradizionali e gli stessi possessori di titoli “accademici”, indebolendo la domanda interna. Dopo una ininterrotta crescita del prodotto interno lordo (PIL), indicatore ancora oggi considerato espressione della ricchezza e del benessere delle nazioni, la crisi delle banche e della finanza americana del 2008 – divenuta rapidamente planetaria – ha portato ad una brusca frenata recessiva e a una lenta e incerta ripresa. Nonostante le forti iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve e della Banca Centrale Europea, dopo la crisi del 2008, la crescita del PIL – nella generalità dei Paesi dell’emisfero euro-atlantico – è risultata debole e scarsamente sostenibile. Pochi anni fa il Governatore della Banca d’Italia, analizzando l’andamento della economia italiana, sottolineava come gli effetti delle misure quantitative della Banca Centrale Europea non avevano prodotto, rispetto ad altri Paesi dell’Unione Europea, risultati sperati perché erano mancate adeguate politiche per indirizzare e sostenere un riposizionamento del nostro sistema produttivo nella nuova geo-economia del pianeta. Un riposizionamento che è divenuto più che mai essenziale per fronteggiare le conseguenze di una la rivoluzione tecnologica in quanto tale e di un fenomeno generalmente indicato come l’emergente dei Paesi sottosviluppati. Che cosa c’è dietro questo emergere? C’è una strategia di sviluppo dell’emisfero asiatico, a partire dalla Cina, che ha utilizzato la tecnologia digitale per un rapido passaggio della loro struttura produttiva da Paese sottosviluppato a potenza tecnologica in grado di difendersi ed offendere nelle nuove forme di conflitti cibernetici; una potenza economica e finanziaria con una dimensione demografica da grande continente e una capacità di acquisizione e controllo di risorse minerarie, energetiche e logistiche con un grande surplus commerciale. Questa strategia non è solo della Cina ma accomuna molti Paesi dell’estremo oriente: con grande realismo e flessibilità e liberi da due secoli di ideologie divenute in Occidente progressivamente sempre più rigide, questi Paesi hanno utilizzato la politica per governare, come strumenti, lo Stato e il mercato. L’evoluzione dei sistemi economici, delle società e della politica nei Paesi euro atlantici pone gli Stati di fronte alla complessità dell’intreccio tra fenomeni chiamati globalizzazione e finanziarizzazione delle economie e le conseguenze dei cambiamenti delle tecnologie digitali, che vedono la presenza di otto tra le più grandi imprese del mondo appartenenti al settore digitale e il crescere dell’intelligenza artificiale sulla organizzazione delle città, dei servizi per la salute, della mobilità, dell’educazione e sullo stesso funzionamento della democrazia e dell’esercizio delle libertà, sanciti dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo e dalle moderne Costituzioni. Negli Stati dell’Europa occidentale, per contrastare gli eccessi delle disuguaglianze economiche e assicurare la copertura dei rischi che il mercato non è in rado di fare è cresciuta una rete di protezione chiamata Welfare State: un sistema con obiettivi e formule, anche diverse a seconda delle differenti sensibilità dei Paesi: dall’assistenza alla vecchiaia, alla salute, alla disoccupazione e alla povertà. Il Welfare State vede così crescere i suoi costi dovuti sia all’allungamento di aspettativa di vita dei cittadini e sia alle crisi economiche del primo novecento e la conseguente contrazione della crescita del PIL. Si generano così crescenti indebitamenti degli Stati e, quindi, un aumento della pressione fiscale soprattutto a carico dei ceti medi che, a loro volta, spingono i governi ad adottare progressivamente misure di contenimento della spesa del Welfare per fronteggiare la contrarietà alla pressione fiscale. In realtà, come suggeriscono, in questo volume, Romano Benini e Sebastiano Fadda, c’è bisogno di un cambiamento nell’approccio al problema delle disuguaglianze, al nodo della redistribuzione e a quello della crescita economica che non distingua, prima crescita e poi redistribuzione ma consideri questa ultima come parte determinante di una azione per la crescita. E, allo stesso modo, consideri la centralità del
lavoro come leva per lo sviluppo e il capitale umano come condizione per la crescita economica e sociale e per la stessa coesione e governabilità degli Stati. Penso non sia più rinviabile un’azione decisa per contenere il crescere delle disuguaglianze che non si limiti ad azioni ex post di “assistenza” e di redistribuzione della ricchezza prodotta ma che ponga la riduzione delle disuguaglianze quale strumento per la crescita dell’intero Paese. Dobbiamo utilizzare il valore positivo della dimensione dello sviluppo umano collocando la persona al centro delle dinamiche economiche.
Il superamento delle disuguaglianze prodotte da una globalizzazione senza regole produrrebbe anche una migliore coesione sociale ed eviterebbe di dover curare – a posteriori – il disagio sociale con forme di assistenza alle persone e alle imprese, misure che operano negativamente sulla dinamica dell’innovazione, sulla cultura del rischio d’impresa e del sentimento di solidarietà sociale. È tempo di individuare una strategia complessiva per integrare politiche economiche, sociali e specifiche per il lavoro, capaci di generare e di sostenere la crescita della ricchezza e del benessere non solo per pochi ma per fasce sempre più ampie di cittadini. Con l’accelerarsi dei tempi della rivoluzione tecnologica, del 6G e dell’intelligenza artificiale,
crescono le possibilità di poter cogliere le potenzialità del “Quarto Capitalismo” e gestire la rivoluzione digitale creando opportunità. Ma, specie nella fase transitoria dai sistemi produttivi tradizionali a quelli digitali e in presenza delle difficoltà evidenti del sistema italiano di definire una strategia coerente in questa direzione, dobbiamo riuscire ad affrontare la quota degli “incollocabili” e quindi della disoccupazione e della povertà attraverso politiche adeguate per l’occupazione e lo sviluppo. Solo lavorando nella direzione della promozione del capitale umano e della attivazione di politiche per la ricollocazione del “disoccupato tecnologico” può evitarci di fermarci alle sole misure assistenzialiste. L’alternativa c’è ed è quella di investire, come è stato fatto in molti altri Paesi europei, sulla realizzazione di robuste infrastrutture – fisiche ed umane – in grado di gestire e promuovere l’occupabilità e l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, facendo funzionare il mercato del lavoro e non lasciando le persone con la paura del cambiamento e la sola speranza di una assistenza.
Il ritardo dell’Italia, più che ventennale, pone la necessità di recuperare il tempo perduto e non continuare su antichi pregiudizi e resistenze ad imboccare strade nuove che sappiano combinare la lotta alla povertà e la prestazione di servizi per l’impiego. L’opportunità delle recenti riforme non va sprecata con una battaglia ideologica ma facendo ricorso a un grande realismo. C’è innanzitutto l’ostacolo di un ordinamento costituzionale che attribuisce a differenti livelli di competenza pezzi di politiche di welfare e di politiche per il lavoro. In presenza di una difficoltà istituzionale e specie in questa fase di avvio – in cui non tutto il territorio nazionale è pronto allo stesso modo – con realismo e nell’interesse dei cittadini, va combattuto il rischio della parcellizzazione degli interventi e di una deriva assistenziale che si limiti al pur necessario sostegno al reddito. Dopo tanti anni di assenza di efficaci politiche e servizi per l’impiego e di fronte a questa accelerazione della rivoluzione tecnologica dobbiamo puntare ad una convergenza tra imprese e sindacati, tra istituzioni pubbliche e agenzie private per il lavoro, tra attività formative professionali – sistema scolastico e universitario – e nuove forme di incubatori imprenditoriali. In questa direzione risulta particolarmente indispensabile una riflessione strategica del sindacato e delle imprese per una evoluzione della contrattazione
collettiva a sostegno della innovazione e della produttività. Come negli anni settanta la contrattazione sindacale si misurò positivamente con l’inflazione, oggi deve farlo con riferimento alla crescita della produttività.
Queste pagine hanno l’obiettivo di stimolare un cambiamento all’approccio della politica economica, smettendo il gioco del cerino in cui si spera che, alla fine, questo finisca nelle mani del nemico. Non c’è spazio per questo italico gioco perché la sfida con i Paesi emergenti ha già creato un solco tra la nostra impreparazione e la potenza di fuoco di chi ha bruciato le tappe e non ha una pesante, anche se gloriosa, eredità che li chiuda dentro il recinto del passato. Ha un sapore retorico dire oggi che sarebbe necessario un patto sociale tra i produttori che sia aperto guidato da una strategia di sistema che coinvolga tutti gli attori dello sviluppo. Ma forse dovremmo cominciare a ripetercelo.
Vincenzo Scotti
Presidente Università degli Studi “Link Campus University”